Libri su Giovanni Papini

2008


Antonino Di Giovanni

Il pragmatismo messo in ordine
Giovanni Papini
dalla filosofia dilettante al diletto della filosofia

Capitolo:
Un Papini, tanti Papini, pp. 21-31
(21-22-23-24-25-26-27-28-29-30
- 31)-32-33-34-35-36-37-38-39-40



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Innanzitutto, penso sia inutile — e forse pure controproducente — cercare di imbrigliare la figura di Giovanni Papini in paralizzanti e inflessibili schemi storiografici, dato che lo stesso Prezzolini, il quale lo conobbe probabilmente meglio di chiunque altro, nel suo Discorso su Giovanni Papini, diceva: «Per sfogare la sua arsione d'azione si butta, neofita ogni due o tre anni, in qualche movimento d'altri donde, appena il disagio lo disincanta del primo miraggio, insofferente della torre d'ombra dell'azione, e cieco per le sue aurore lontane, si toglie» 16.
   In secondo luogo, non ha senso etichettare chi ha dedicato — come lui — la propria vita a fare in molti casi da apripista, schiudendo nuove mete allo spirito del tempo. Egli stesso, consapevolmente e programmaticamente, diceva di sé: «Mentre in genere i filosofi aspirano a fare qualcosa di stabile, di ultimo, di definitivo (Hegel, Comte, ecc.) io tengo soprattutto a fare qualcosa d'iniziale, ad aprire una strada nuova ove altri, forse, camminerà e correrà» 17.
   Terzo, perché di Papini, con una certa sicurezza, si può dire a tal proposito soltanto ciò che ha sostenuto Luti: «L'inquietudine dell'intellettuale Papini è il primo elemento da non trascurare nella ricostruzione della sua personalità. Per cui la conclamata frattura tra il Papini anarchico, antiborghese, anticlericale della gioventù, e il Papini cristiano, retoricamente meditativo dopo la conversione degli anni venti, è più apparente che reale. In effetti non c'è divario eccessivo tra il Papini dell'Uomo finito e quello delle Lettere agli uomini di papa Celestino VI. La sua evoluzione o involuzione, se vogliamo, non sorprende chi conosce il complesso dell'attività papiniana» 18.


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Il pragmatismo fu una delle tante dottrine che il Papini — a quel tempo Gianfalco (pseudonimo con il quale firmò molti dei suoi articoli sul “Leonardo”) — volle seguire e reinterpretare a modo suo.
   È indispensabile sottolineare che non ogni apparente “virata” del Papini era in realtà una svolta radicale. Infatti, nonostante le sue frequenti peregrinazioni possano sembrare in alcuni casi avventate e causate da atteggiamenti dilettantistici, nella realtà delle cose, quando Papini mutava le proprie posizioni, ogni cambiamento era da lui assai ponderato. Pur rimanendo per buona parte della sua vita quel giovane dal temperamento incostante — un outsider, come lo definì il Prezzolini 19 — non si dovranno trarre affrettate conclusioni dai modi nei quali si palesava il suddetto temperamento.
   Egli stesso avvertiva il lettore frettoloso dicendo: «Che camaleonte! — diranno i soliti anonimi. Aspettate» 20.
   Papini è sembrato certamente un trasformista, la sua vasta opera può ancora sembrare priva di un'intrinseca coerenza e difforme nello stile e nei moventi, ma la sua unità spirituale è da ricercare nella condotta: fu un filosofo 21.
   La sua “sregolatezza” si potrà vedere come una risorsa oppure si potrà biasimare come un limite, ma non si potrà negare che Papini credeva realmente di essere investito da una missione e che, di conseguenza, non fece quanto nelle sue possibilità — “correndo” in lungo e in largo — per cercare di portarla a termine.
   Dal canto suo, il Papini pragmatista sapeva di non essere in grado di parlare proprio a tutti — certo non solo a causa della propria irregolarità — e cercava, pur volendo educare e trasformare gli


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uomini nella loro totalità, di dire pane al pane e vino al vino a quei pochi che lo avrebbero voluto seguire nei suoi itinerari intellettuali, di dottrina in dottrina. Non si rivolgeva, quindi, a coloro i quali lo avrebbero incitato con dei battimani d'occasione (si scagliò sempre contro la fama e i suoi effetti negativi sull'intelligenza), ma voleva parlare all'appassionato lettore 22.
   Alla luce di quanto detto finora, è comunque possibile che lo studioso dell'opera papiniana si venga a trovare dinnanzi al problema di stabilire, almeno con una certa sicurezza, cosa Papini credeva, sentiva o pensava in merito ad alcune questioni. Infatti, spesso il Papini pronunciava in maniera perentoria i suoi giudizi, le sue inclinazioni e certi suoi pareri, ma, in altri luoghi o anche alla pagina successiva, con ingenua semplicità — dimentico di ciò che aveva affermato in precedenza — tradiva, smentiva o addirittura rovesciava il suo pensiero 23. Questo si verificava anche quando voleva limitarsi a chiarire o a specificare le sue posizioni e le sue vedute. Per fortuna, sul pragmatismo non si pronunciò mai in modo ambiguo e, anche quando già da tempo aveva cambiato rotta, non fece a meno degli insegnamenti appresi durante quegli anni, anni durante i quali — schierato in prima linea — aveva indossato i “panni” pragmatisti. Invece, quando non si parla del pragmatismo papiniano, a coloro i quali manca una prospettiva d'insieme delle opere papiniane può facilmente capitare di constatare delle continuità (a volte fuorvianti) o alcune “rotture” (magari inesistenti) ed è meglio, se si vuole fedelmente seguire Papini, fare a meno di queste categorie nelle interpretazioni del suo pensiero. Papini era sovranamente intelligente e riusciva a occuparsi di tante cose contemporaneamente, e quando ci si occupa di lui non deve meravigliare quel


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senso di vertigine che si avverte, perché vorticoso era il suo ingegno.
   Parlare del rapporto d'amore e odio che Papini intrattenne con la filosofia durante l'intero arco della sua vita, schiude la via a un discorso su due tratti fondamentali del suo profilo sia umano che intellettuale: l'aggressività e la dolcezza.
   «In me, scrive Papini, c'è l'uomo che odia e che ama — lo sdegno e l'entusiasmo sono, a mio parere, vie di scoperta e conoscenza più del giudizio pacato, savio e riflesso — e, infine, anche l'uomo curioso e che prova gusto a stuzzicare o soddisfare le curiosità degli altri» 24.
   Anche Roberto Ridolfi — nobile biografo di Papini —, a tal proposito, dice che: «Con tutti gli uomini, sempre, farà quello che faceva allora col padre, col fratello, con la sorella: amava e si mostrava ostile, sgarbato. Si appartava, si arroccava in un silenzio salvatico» 25. Papini — secondo lo stesso Ridolfi —, nella sua veggente sensibilità, anticipava e riassumeva il travaglio di un'epoca 26.
   Infatti, «Entrato nel dolore per i sentieri fioriti della poesia, ne uscì per le massicciate vie del pensiero. Simile e in qualche parte concentrica ai suoi avvolgimenti nel mare magnum dell'erudizione, cominciava così la grande girandola: pessimismo, positivismo, monismo, idealismo, solipsismo, pragmatismo. Ogni filosofia gliene suscitava subito un'altra, per scorrimento o per rimbalzo. Prese una per una, nessuna lasciò nel suo spirito sensibili tracce: seguirle partitamene in queste pagine che sono la storia di una vita, non fogli di diario, sarebbe come a un biografo voler seguire le fantasie di un poeta: quanto a consistenza e ad effetti, ne siamo poco lontani. Ciò che lasciò in lui una profonda traccia, e ciò che conta soltanto, è la somma di tutto questo travaglio, la stanchezza e la delusione che gliene rimasero» 27. Preservando la validità dell'impianto storico-analitico del Ridolfi, dobbiamo ammettere che, probabilmente, l'ultimo periodo dev'essere ridiscusso.


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   All'età di diciannove anni — il 20 giugno del 1900 — Papini annotava nel suo diario: «Risoluzione ferma di divenire un pensatore» 28. E il 27 luglio dello stesso anno, con altrettanta decisione scriveva: «Io non farò né il maestro né l'insegnante di francese come ero stato ridotto a desiderare ma farò il filosofo, il pensatore solitario» 29. Eppure, sapeva bene — e dimostrerà di saperlo ancor di più durante gli anni del «Leonardo» — che al suo tempo, e purtroppo non solo, «in Italia l'ignoranza è ancora in onore, e soprattutto l'ignoranza delle idee. Il filosofo è nell'immaginazione popolare qualcosa di simile a una delle maschere tradizionali della nostra commedia [...] acchiappanuvole e cacciatore di fumo sono i titoli più gentili che ha trovato per lui la fraseologia del senso comune» 30.
   Alla luce di queste sue osservazioni, o meglio ancora per l'ardore di queste sue riflessioni giovanili, mi sembra proprio opportuno ripetere con Baldacci che Papini “Credeva nella filosofia come in uno strumento per cambiare il mondo” 31, infatti, soltanto questa fede può farci comprendere la sua ostinazione negli studi filosofici e il suo ossequio nei confronti delle idee. Mi rendo conto del fatto che può sembrare quasi paradossale, quando si parla di un “demolitore” come Papini, parlare di un suo rispetto per le idee (figuriamoci di una fede nelle idee), ma — e lo si comprende leggendo un suo Frammento del 1902 — in realtà, fin da giovanissimo, si accanì contro i volgarizzamenti delle idee, infatti, diceva: «Succede delle idee come degli abiti portati da molti: perdon la freschezza e il colore e non si riconoscon più. La folla è un laminatoio che insudicia» 32. Eppure, anch'egli è stato giudicato perlopiù un dilettante 33. e un


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semplificatore quando ha attraversato i territori della filosofia; per non dire che insieme all'intero gruppo pragmatista gli fu rimproverato (ad es. da Amendola e da Aliotta) di seguire soltanto idee alla moda.
   Comunque, è necessario precisare che una certa deriva storiografica nel secondo dopoguerra (non dev'essere dimenticata neanche l'irriflessiva stagnazione di alcuni veri e propri pregiudizi) hanno oscurato le sue doti filosofiche, proprio quelle doti che — invece — venivano lodate dai grandi filosofi suoi coevi: basta ricordare la cordialità dimostratagli dal James 34.
   Anche Prezzolini — grande amico e compagno, oltre che nella vita, di molte imprese editoriali — nel suo Discorso su Giovanni Papini, parlando dell'atteggiamento papiniano nei confronti del “pensiero”, diceva che la filosofia stava “sempre in agguato nella vita di Papini” 35. Ma è lo stesso Papini — il quale più volte tornò a ripensare


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la sua “iniziazione” e il suo rapporto con la filosofia e le varie dottrine dei filosofi — ad informarci con la sua prosa poetica sull'irruzione della speculazione nella sua vita. Nel suo capolavoro — Un uomo finito — troviamo scritto: «La ragione corse in aiuto alla stanchezza. Cominciavo allora a fiutare un po' di filosofia, chissà in quali perfidi libri!, e cominciavo alla peggio a ragionare colle regole e a riflettere men grossolanamente che non s'addicesse alla mia età. Vidi dunque che la sapienza vera non consisteva né poteva consistere in un accozzo alfabetico di notizie borseggiate qua e là da ogni parte; in un ammonticchiamento di raccattaticci e di copiature, ordinato meccanicamente ma senza soffio di vita né anima di pensiero» 36.
   La filosofia, con il suo “potere terapeutico”, destò ben presto l'interesse di Papini e lo catturò 37. ma — con il passare del tempo — quando con l'esperienza riuscì a temprare il suo animo, rimase totalmente conquistato dalla riflessione filosofica e, per molti anni, non dubitò dei poteri di questa attività dello spirito. È vero, rese note le sue riserve e si mostrò parecchie volte disilluso, ma eccolo bruciare grani d'incenso alle idee: «Mi piaceva la ricerca per la ricerca; l'idea che genera una più grande idea; il potere meravigliosamente allargatore dell'astrazione. I metodi e i concetti mi conquisero: non vidi più il mio dolore riflesso nel mondo ma sentii il mondo pensare dentro di me. Da quel tempo la mia vita fu pensiero. Sola realtà mi parve l'idea, sola espressione perfetta la filosofia. Ero affogato tra i


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fatti ma i fatti non mi bastavano. Per quanti ne scandagliassi e ne mettessi insieme non esaurivano l'infinito. Quella ricchezza del particolare, ch'era stata la sola ricchezza mia di erudito disordinato, mi sembrava una disperata miseria. La mia mente, smaniosa di vastità e di completezza, cercava i concetti universali come il solo pasto che le potesse finalmente cavar la fame» 38.
   Nella sterminata opera papiniana è possibile rintracciare decine e decine di splendide pagine sul metodo della filosofia, sui filosofi e sulle loro diverse dottrine, ma la storia del pragmatismo italiano — e quindi del pragmatismo di Papini — è legata in particolar modo a una delle sue tortuose e spericolate vicende editoriali, probabilmente tra le più audaci del Novecento italiano: il “Leonardo” 39.
   Non potendoci soffermare in questa sede sull'intera storia della rivista di Papini e Prezzolini, consapevoli del fatto che il «Leonardo» fu probabilmente la più importante — insieme alla «Critica» — tra quelle riviste che caratterizzarono il clima culturale al quale siamo interessati e nel quale fermentarono le idee giunte in Italia dagli Stati Uniti, andiamo ad analizzare direttamente la “svolta” pragmatista della seconda serie del «Leonardo».
   In Un uomo finito, Papini ci racconta come il «Leonardo» — nato come giornale senza un preciso orientamento — divenne una rivista di idee: «Il giornale piaceva e spiaceva [curiosità, entusiasmi, compatimenti] ed era letto molto, specie dai giovani, ma i giornalai ci truffavano e gli abbonati non arrivavano a cento. Così verso l'estate si restò soli noi due filosofi: io e Giuliano. E noialtri non ci


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arrendemmo. Il giornale diventò rivista: il formato s'impicciolì; si adoprò una carta avoriata qualunque, si pubblicò più di rado e in più pagine; l'arte fu messa un po' in disparte; la letteratura e la politica furon cacciate via e la filosofia diventò finalmente padrona, signora, dominatrice» 40.
   E dalle pagine del «Leonardo», che in questo furono seconde soltanto a quelle de «La Critica», i giovani filosofi scagliarono saette infuocate verso l'Accademia e soprattutto all'indirizzo dei positivisti. Si marciò contro il positivismo, per i due amici ormai divenuto asfissiante filosofia à la mode, con la sua andatura pedantesca e privo di ogni originalità, e, in particolar modo, ci si accanì contro la sua fede dogmatica in certi convincimenti o contro quei rimaneggiamenti di idee francesi, avversando anche il suo ruolo egemone e opprimente nella cultura italiana della seconda metà dell'Ottocento. Non c'è numero della seconda serie del «Leonardo» in cui non si trovino valanghe di critiche e insulti, spesso eccessivamente fuori luogo e irriverenti, contro i positivisti. E ciò seguiva quella celebrazione prezzoliniana dei funerali del positivismo quasi a conclusione della prima serie 41. Quindi, i due giovani direttori — rimasti soli ed avendo lasciata la porta aperta esclusivamente alle idee — cercarono una filosofia utile al loro scopo: «Una filosofia a nostro modo, naturalmente, e che si contrapponeva fieramente e beffardamente alle filosofie della tradizione, dei manuali, dei professori, delle università. Noi volevamo capovolgere l'idea stessa della filosofia e dare al pensiero le immagini e il volo della poesia; e metter nella poesia dei letterati (che c'erano odiosi) un lievito, un fermento, un'essenza di pensiero. La filosofia doveva ricominciare a viver con noi e d'una vita tutta in contrasto col suo passato. Era stata fin'allora razionale e noi si combatteva con tutte le forze e le astuzie l'intellettualismo; era stata sempre speculativa e contemplativa e si voleva che divenisse attiva e creatrice e che pigliasse la sua parte nell'opera necessaria del rifacimento del mondo. Urgeva, perciò, spazzar via il passato e il presente di quella filosofia di pigri, di orbi e di vigliacchi che s'era fatta fin'allora. La filosofia dominante, in quegli anni, in Italia, era il


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positivismo e noi giù addosso all'impazzata contro i positivisti» 42. Ma non si risolse il tutto in un polverone demolitorio, d'altronde, non sarebbe rimasto un bel nulla una volta tornata la quiete. Molti furono i meriti della rivista, anche se percepiti in maniera diversa dagli stessi protagonisti della redazione, purtroppo spesso non vengono né ricordati né elencati in modo esauriente nelle opere dei critici e degli studiosi. Sono indubbi e decisivi i contributi del “Leonardo” alla nostra cultura e non sarà inutile riportare le parole con cui li ricordava Papini: «Non si distruggeva soltanto, no. Siamo stati i primi, in Italia, a parlare di molti uomini nostri e stranieri, dimenticati od ultimi, che ora tutti citano e allora nessuno conosceva neppur di nome, e ne abbiamo parlato con riverenza, con amore, con entusiasmo. Abbiamo diffuso, primi o quasi, idee recenti, indirizzi di pensiero malnati o in formazione, scuole a cui nessuno fra noi, badava e pensava. Abbiamo risuscitato la passione per i vecchi mistici; abbiamo dato ad alcuni giovani l'impensato gusto delle matematiche; abbiamo posti e discussi problemi che parevan lontanissimi dalla nostra cultura nazionale» 43.
   Quando è in scena il “titanismo” intellettuale nelle pagine di Un uomo finito, le dure condanne contro taluni modi di fare filosofia, non prive di roboanti stigmatizzazioni, si accompagnano spesso a esaltazioni retoriche e a magniloquenti elogi della stessa pratica filosofica, purché intesa e compresa secondo l'idea di filosofia che Papini si andrà costruendo. Ed è in questo processo mentale che si scoprono quelli che possiamo definire gli “arcani” del pragmatismo svelati dal nostro autore. Per paradosso, dentro la forma poetico-letteraria propria dell'opera, i gangli del pragmatismo si ritrovano esposti forse in modo più chiaro di quanto non avvenga nello scritto papiniano sul Pragmatismo. «Vi son attimi e lati delle cose — scrive Papini — che nessuno vede, che nessuno cerca: altro che arrampicamento acrobatico verso le vuote unità dei monismi! Questo paziente scovamento del concreto particolare dovrebbero fare i filosofi piuttosto che gingillarsi ancora coi giuochi froebeliani delle definizioni a priori e delle architetture simmetriche. Questo sarebbe l'avviamento al dominio del mondo. Quando l'uomo,


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invece di separarsi dal reale, come qualcosa a sé che lo giudica e lo misura, si disfacesse nel reale in modo da sentir fratello ogni atomo e sorella ogni apparenza, allora il corpo limitato dell'uomo sparirebbe nel corpo smisurato dell'universo; il microcosmo sarebbe effettualmente il macrocosmo, e ogni parte del mondo sarebbe come una parte della sua persona — e come la volontà muove a suo piacere ogni membro della persona potrebbe allora muovere ogni elemento del mondo. Da questo fermento d'idee nacque in me quella specie di filosofia che fu detta pragmatismo e che in altri ebbe origini e caratteri del tutto differenti» 44.
   Per Papini il pragmatismo era una sorta di “misticismo magico”. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dal significato letterale della formula o dall'associazione di idee che la riconduce a qualcosa di simile a una esperienza mistica, o allusiva a entità numinose. Questa definizione, come altre dello stesso tipo inventate da Papini, è da lui escogitata ad hoc per designare il tratto tipico di un'avventura intellettuale personalmente vissuta come feconda e suggestiva e, perciò, proposta, in maniera stravagante, a coloro che intendono ripeterla e farla propria.


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